Il sistema delle tutele antidiscriminatorie si presenta tuttora, dopo decenni di interventi additivi, modificativi, soppressivi, sostitutivi e integrativi, come un’incompiuta, nella quale l’aspirazione al contrasto delle disuguaglianze viene paradossalmente contraddetta, in alcuni casi, persino da un impianto che regolamenta in modo differente le singole vicende unicamente ed esclusivamente in ragione dello specifico fattore di rischio cui esso viene ricondotto. Così, l’aspirazione all’uguaglianza sostanziale dei nostri Costituenti è stata in parte disattesa da un’ipertrofia normativa frutto dell’affastellarsi di spinte pluridirezionali, nelle quali la peculiare valorizzazione, di volta in volta, di uno dei singoli aspetti nei quali una discriminazione può manifestarsi ha preso il sopravvenuto sulla visione sistematica di questo odioso fenomeno. E questo fa sorgere il rimpianto – pure coi limiti che vedremo – per la lineare icasticità del dettato dell’art. 15 St. lav. che, in una stagione assai più felice del diritto del lavoro, seppe fotografare prima di tutto il giudizio del nostro ordinamento (e dell’impianto valoriale che esso esprime) rispetto alla discriminazione: quello della sanzione più severa, la nullità. Nullità intesa come radicale insanabilità di ogni condotta ispirata, consciamente o meno, alla violazione di questo principio fondamentale. Certo, l’inefficienza, sotto il versante ripristinatorio, repressivo, risarcitorio e dissuasivo, del principio statutario ha senz’altro giustificato la necessità per il legislatore di operare interventi destinati a dare corpo e struttura agli effetti della nullità. Ma la direzione scelta, quella della caotica stratificazione di tecniche di tutela, di riti, di procedure e di misure sanzionatorie – sia pur ampiamente giustificata anche alla luce degli altrettanto disordinati impulsi provenienti dal diritto e dalla giurisprudenza comunitaria – non può consentire l’assoluzione del nostro legislatore. Analogamente, lo sforzo, a volte ammirevole, della giurisprudenza, specie di merito, di ritrovare unità al disegno costituzionale e di garantire al contempo effettività al sistema sanzionatorio, persino in chiave dissuasiva, non permette di oscurare le conseguenze che il ricorso alla giustizia del ‘caso per caso’ ha prodotto in questa direzione. Anzi, oggi la lotta al contrasto delle discriminazioni - peraltro in un’epoca di vistoso abbassamento delle generali tutele del lavoratore subordinato, di diritto o di fatto – ha raggiunto in alcune vicende soglie di tale pervasività da iniziare a far riflettere sull’esigenza di avviare (nel solco di quanto, ad esempio, avvenuto già negli anni ’80 dello scorso millennio negli USA) anche percorsi di contrasto alla discriminazione alla rovescia. L’autentico rispetto dei valori costituzionali e la determinazione che deve appartenere ad una società autenticamente democratica e solidale nel preservarli, impone allora di trovare gli anticorpi per contrastare questa deriva, legittimata dalla farraginosità del sistema normativo ad oggi edificato, oltretutto in un cantiere che resta costantemente aperto. La prospettiva, a mio avviso, non può che essere quella di ritornare allo spirito statutario, alla semplificazione normativa, all’edificazione di un unico corpo regolamentare unitario che contenga, con la chiarezza dell’antico legislatore, tutti gli elementi definitori e tutti gli strumenti processuali e sanzionatori utili per il governo di questi fenomeni. Accanto a questo, l’auspicio è che si dia impulso, ugualmente su di un piano complessivo, ad una disciplina della trasparenza informativa degli atti, dei comportamenti e delle scelte che rappresenta, da sola, forse la più efficace tecnica di effettività, almeno nella dimensione preventiva, nella lotta a tutte le discriminazioni.
L’INVERSO RAPPORTO TRA POLIMORFISMO ED EFFICIENZA NELLE TUTELE PROCESSUALI ANTIDISCRIMINATORIE
SEVERINO NAPPI
2024-01-01
Abstract
Il sistema delle tutele antidiscriminatorie si presenta tuttora, dopo decenni di interventi additivi, modificativi, soppressivi, sostitutivi e integrativi, come un’incompiuta, nella quale l’aspirazione al contrasto delle disuguaglianze viene paradossalmente contraddetta, in alcuni casi, persino da un impianto che regolamenta in modo differente le singole vicende unicamente ed esclusivamente in ragione dello specifico fattore di rischio cui esso viene ricondotto. Così, l’aspirazione all’uguaglianza sostanziale dei nostri Costituenti è stata in parte disattesa da un’ipertrofia normativa frutto dell’affastellarsi di spinte pluridirezionali, nelle quali la peculiare valorizzazione, di volta in volta, di uno dei singoli aspetti nei quali una discriminazione può manifestarsi ha preso il sopravvenuto sulla visione sistematica di questo odioso fenomeno. E questo fa sorgere il rimpianto – pure coi limiti che vedremo – per la lineare icasticità del dettato dell’art. 15 St. lav. che, in una stagione assai più felice del diritto del lavoro, seppe fotografare prima di tutto il giudizio del nostro ordinamento (e dell’impianto valoriale che esso esprime) rispetto alla discriminazione: quello della sanzione più severa, la nullità. Nullità intesa come radicale insanabilità di ogni condotta ispirata, consciamente o meno, alla violazione di questo principio fondamentale. Certo, l’inefficienza, sotto il versante ripristinatorio, repressivo, risarcitorio e dissuasivo, del principio statutario ha senz’altro giustificato la necessità per il legislatore di operare interventi destinati a dare corpo e struttura agli effetti della nullità. Ma la direzione scelta, quella della caotica stratificazione di tecniche di tutela, di riti, di procedure e di misure sanzionatorie – sia pur ampiamente giustificata anche alla luce degli altrettanto disordinati impulsi provenienti dal diritto e dalla giurisprudenza comunitaria – non può consentire l’assoluzione del nostro legislatore. Analogamente, lo sforzo, a volte ammirevole, della giurisprudenza, specie di merito, di ritrovare unità al disegno costituzionale e di garantire al contempo effettività al sistema sanzionatorio, persino in chiave dissuasiva, non permette di oscurare le conseguenze che il ricorso alla giustizia del ‘caso per caso’ ha prodotto in questa direzione. Anzi, oggi la lotta al contrasto delle discriminazioni - peraltro in un’epoca di vistoso abbassamento delle generali tutele del lavoratore subordinato, di diritto o di fatto – ha raggiunto in alcune vicende soglie di tale pervasività da iniziare a far riflettere sull’esigenza di avviare (nel solco di quanto, ad esempio, avvenuto già negli anni ’80 dello scorso millennio negli USA) anche percorsi di contrasto alla discriminazione alla rovescia. L’autentico rispetto dei valori costituzionali e la determinazione che deve appartenere ad una società autenticamente democratica e solidale nel preservarli, impone allora di trovare gli anticorpi per contrastare questa deriva, legittimata dalla farraginosità del sistema normativo ad oggi edificato, oltretutto in un cantiere che resta costantemente aperto. La prospettiva, a mio avviso, non può che essere quella di ritornare allo spirito statutario, alla semplificazione normativa, all’edificazione di un unico corpo regolamentare unitario che contenga, con la chiarezza dell’antico legislatore, tutti gli elementi definitori e tutti gli strumenti processuali e sanzionatori utili per il governo di questi fenomeni. Accanto a questo, l’auspicio è che si dia impulso, ugualmente su di un piano complessivo, ad una disciplina della trasparenza informativa degli atti, dei comportamenti e delle scelte che rappresenta, da sola, forse la più efficace tecnica di effettività, almeno nella dimensione preventiva, nella lotta a tutte le discriminazioni.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.